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Ora che sono stati pubblicati (CM 49/2012) i materiali provvisori relativi all’operazione INDICAZIONI/2012 per il primo ciclo, è possibile compiere qualche valutazione della bozza sottoposta alla consultazione delle scuole per tutto il mese di giugno 2012. In questo contributo cercheremo di cogliere le motivazioni e il significato della proposta di nuove Indicazioni, che dovrebbero prendere il posto dell’edizione 2007 (Fioroni), che giunge alla sua scadenza naturale il 31 agosto 2012 (come dice il Dpr 89/2009). Si tratta di tempi assai ristretti, che possono anche suscitare in prima battuta un effetto di disturbo (“Ma come! Con tutto il tempo che c’era, si chiede alla scuola un parere in extremis, a tempo ormai scaduto, con gli insegnanti impegnati nelle operazioni di fine anno…succede sempre così!”). Reazioni prevedibili, ma che non tengono conto della difficile situazione politica (recente cambio di Ministro e Sottosegretari), dei ritardi accumulati nella stagione precedente (la legge assegnava tre anni di tempo al monitoraggio, non tre mesi…), delle incertezze circa il futuro delle politiche scolastiche (si pensi al blocco della contrattazione, agli effetti del dimensionamento, ecc.). La vera partita si giocherà nei prossimi anni scolastici (ad esempio in materia di formazione dei docenti e di ricerca sulle didattiche più efficaci), ma ciò non toglie che in questo sia pur breve periodo convenga a tutti gli aventi titolo, in primis agli operatori scolastici, far sentire la propria voce, in vista della redazione definitiva del testo e della sua approvazione con regolamento, operazione che avverrà quasi certamente nel corso dell’estate 2012. La brevità del tempo concesso alle scuole è in parte compensata dalla dinamica ancora aperta dei lavori (siamo in presenza di un testo emendabile), dalla sincerità dei quesiti sottoposti all’attenzione delle scuole (nel questionario ci sono alternative “vere”), dalla possibilità di tenere aperti ulteriori canali di consultazione e confronto (ad esempio, forum, focus, seminari, ecc.).
Niente “armonizzazione”: si riparte dal 2007
Intanto, occorre prendere atto della volontà del ministro Profumo di non procedere ad una “millimetrica” armonizzazione tra il testo del 2004 (Bertagna) e quello del 2007 (Ceruti), ma di prendere quale base di riferimento il testo delle Indicazioni/2007, sia per ragioni giuridiche (esse rappresentano il testo “aggiornato” delle Indicazioni/2004, come recita il dispositivo di cui al Dpr 89/2009), sia per la migliore accoglienza espressa dalle scuole (come rivelano gli esiti del monitoraggio Miur-Ansas realizzato nell’inverno scorso). Certamente hanno influito in questo apprezzamento anche la migliore leggibilità del testo 2007 e il “lessico pedagogico” ivi richiamato (curricolo, gestione della classe, discipline, laboratorio, ambiente di apprendimento, ecc.), più vicino alle tradizioni della nostra scuola di base. Ma allora perché procedere ad una “revisione” del testo? Non era sufficiente ripubblicarlo tale e quale sulla Gazzetta Ufficiale? L’operazione di riscrittura però si giustifica (come segnala il Ministro nella CM 31/2012), sia per tener conto di alcune criticità affiorate nel corso della attuazione sperimentale delle Indicazioni/2007, sia per considerare gli elementi di novità intervenuti in questi ultimi (cinque) anni nel quadro culturale, pedagogico ed istituzionale della scuola italiana. Ad esempio, va ricordato che i riferimenti europei più recenti risalgono al 2008 (adozione del quadro delle qualifiche europee, EQF), mentre è del 2010 il documento di orientamento sull’apprendimento in contesti plurilingue e interculturali. L’adozione del quadro delle competenze chiave di cittadinanza è avvenuta invece nel 2006, ma di essa c’era scarsa traccia nel testo delle Indicazioni/2007 (a differenza delle Linee guida per il biennio, DM 22-8-2007, n. 139). Un più forte richiamo all’Europa, visibile nel profilo formativo del 14enne (inserito ex-novo nel nuovo testo), potrebbe favorire un miglior raccordo “lungo” tutto l’asse dell’obbligo decennale di istruzione.
Il “peso” della valutazione e la “domanda” di standard
Nel corso degli ultimi 5 anni si è intensificata la pratica della rilevazione standardizzata degli apprendimenti, in lingua italiana e matematica, su base censuaria per tutte le classi 2^ elementari, 5^ elementari, 1^ medie e 3^ media (in quest’ultimo caso con inserimento di una prova nazionale in sede di esame). Questa novità, prevista dalla legge 176/2007 e richiamata dalla recente legge 35/2012, se ben utilizzata dai docenti e dalle scuole (visto che le informazioni di ritorno degli apprendimenti sono solo ad essi destinate), ha consentito di disporre di dati più estesi ed attendibili circa i reali livelli di apprendimento degli allievi in alcune competenze strategiche, ma ha anche indotto a volte comportamenti opportunistici finalizzati ad una preparazione strumentale alla soluzione dei quesiti. Discutibile è anche il commercio di guide e sussidi ad hoc per superare le prove. In ogni caso, attraverso la “forza” delle prove standardizzate, di fatto, è stata veicolata un’idea “implicita” di standard di apprendimento, con il rischio di invertire l’ordine dei fattori: prima dovrebbe venire la definizione di traguardi e di obiettivi connessi ad un progetto di scuola, poi la formulazione di strumenti e prove di verifica. Riparlare di Indicazioni dovrebbe aiutare a ripristinare un corretto rapporto tra curricoli, pratiche didattiche, valutazione. Inoltre, le modifiche apportate alla valutazione (con l’introduzione dei voti in decimi in tutto l’arco della scuola di base –legge 169/2008), la richiesta di certificare le competenze in uscita dalla classe 5^ elementare e 3^ media (Dpr 122/2009), pongono delicate questioni di natura docimologica (per salvaguardare il valore formativo della valutazione), ma sollecitano anche un più esplicito richiamo ai “risultati attesi” al termine del percorso formativo (ed in alcune tappe intermedie). La prospettiva degli standard non deve far dimenticare che in un percorso formativo di base ciò che conta è anche l’effettiva progressione di apprendimenti, lo stimolo al miglioramento, la costruzione di motivazioni positive verso la conoscenza, l’esplorazione di aree di potenzialità per ogni allievo, il rispetto per modalità diverse di essere intelligenti. Dunque lo standard è un concetto da utilizzare con misura e cautela, con la massima preoccupazione verso gli allievi che si possono trovare in situazioni di criticità (sotto gli standard attesi). Ecco perché, in questa prima stesura delle nuove Indicazioni, è stata confermata la dicitura di “traguardi per lo sviluppo delle competenze”, che riconferma il carattere dinamico e aperto dei processi di apprendimento che si deve salvaguardare nella scuola di base. Anche i passaggi “equilibrati” sulla valutazione contenuti nel paragrafo relativo all’organizzazione del curricolo (che appare arricchito rispetto alla edizione del 2007) ci ricordano che una valutazione formativa si articola necessariamente in momenti di autovalutazione, di valutazione esterna, di rendicontazione sociale. Inoltre, una buona strumentazione valutativa deve retroagire positivamente sulla qualità della didattica (ad esempio, se si certificano le competenze, ci si dovrà almeno porre il problema di una didattica per competenze).
Le sofferenze organizzative (per non parlare di tagli)
Parlare di progetto culturale, di discipline, di didattica è oggi indispensabile. Ma occorre essere realistici e leggere la situazione di disagio che si respira nella scuola. Non basterà cambiare i programmi per fare una buona scuola. I curricoli reali sono il frutto di un equilibrio ragionevole, ma dinamico, tra indicazioni nazionali, sistemi nazionali di rilevazione degli apprendimenti, curricoli di scuola (POF), pressioni/sollecitazioni dell’ambiente e del contesto, pratiche didattiche (es.: libri di testo, nuove tecnologie, ecc.), normativa di riferimento. Le modifiche intervenute recentemente negli ordinamenti (legge 133/2008, legge 169/2008, Dpr 89/2009) hanno introdotto elementi di semplificazione nei modelli organizzativi (tempo scuola più compatto, ridefinizione della pluralità docente, ecc.), che però sono stati visti dalla scuola come un impoverimento della proposta formativa (si pensi all’aumentato numero di allievi per classe, alla scomparsa degli orari di compresenza, al modello più rigido e “accademico” di tempo prolungato). E’ una situazione che va affrontata e capita, senza indulgenze, ma cogliendo il nesso e la coerenza tra progetto didattico, progetto organizzativo e risorse effettivamente disponibili.
New entry: l’istituto comprensivo per tutti
Una novità da considera è la generalizzazione degli istituti comprensivi, anche se con la spinta impropria delle manovre di contenimento della spesa pubblica (Legge 111/2011). Dal 1° settembre 2012 oltre 4.800 istituti saranno “comprensivi” (erano però già 4.000 quest’anno) e residuano circa 1.500 direzioni didattiche e scuole secondarie, che saranno sicuramente aggregate entro il 2014-15. Oltre 450.000 docenti si troveranno ad operare nel nuovo contesto professionale dell’istituto comprensivo ed occorre fornire “motivazioni”, “ragioni”, “senso” a questa novità, per non farla percepire come scelta di ripiego dovuta a mere ragioni economiche. Si può ben dire che le Indicazioni/2012 dovranno essere percepiti come i programmi dell’istituto comprensivo, destinati ad accompagnare e arricchire di motivi culturali questa nuova dimensione organizzativa. Si è tenuto conto di questo in molti passaggi della nuova stesura, segnalando anche negli assetti delle singole discipline l’esigenza di un raccordo più leggibile. Per altro anche il testo del 2007 era predisposto per una “lettura” in verticale del curricolo. In particolare occorre collocare le criticità della scuola media (cfr. Rapporto Fondazione Agnelli, 2011) nell’ambito del nuovo contesto “verticale”. Ciò non significa impoverire la proposta didattica della scuola secondaria o elementarizzarla, bensì arricchirla e renderla più efficace salvaguardando specificità, identità, compiti formativi, ma in una visione d’insieme che può dare più forza ad ogni segmento e più responsabilità (e soddisfazioni) ai docenti.
L’obbligo di istruzione a 16 anni
Ci si chiede anche se l’elevamento dell’obbligo di istruzione a 16 anni e la relativa definizione (DM 139/2007) di un quadro culturale comune nel primo biennio (“equivalenza formativa”), che però si declina in percorsi formativi assai differenziati [1], debba in un qualche modo “rimbalzare” sulla configurazione curricolare del primo ciclo. Una connessione va senza dubbio ricercata, non tanto in una improbabile ricomposizione formale (utilizzare gli stessi termini, le stesse definizioni, gli stessi assi ecc.) o ricercando un aggancio a scavalco nei “contenuti” disciplinari, ma rafforzando la coerenza complessiva del percorso dell’obbligo, ed in essa di un primo ciclo unitario (entro l’istituto comprensivo), senza sottovalutare l’apporto significativo che può essere fornito da una buona scuola dell’infanzia di durata triennale (“Starting Strong”: partire alla grande, raccomandano i ricercatori dell’OCSE, quando segnalano il valore strategico della “prima scuola”). Un banco di prova sarà rappresentato dalla certificazione delle competenze in uscita dalla 5^ elementare, dalla 3^ media, dalla 2^ superiore. Ora esiste un modello nazionale di certificazione solo per i 16enni (DM 9/2010), ma la norma prevede che anche le certificazioni nella scuola di base siano rilasciate sulla base di modelli nazionali. Ci sono lavori in corso al MIUR e dovranno essere necessariamente raccordati con la nuova impostazione delle Indicazioni. In particolare occorre coniugare la presenza di criteri legali (nazionali) con il preminente valore formativo che la certificazione delle competenze dovrebbe mantenere a questi livelli di età. E’ giusto rendere più evidenti gli standard attesi al termine dei diversi percorsi formati, ma interessa anche mantenere aperto il processo di crescita degli allievi, senza ricreare inutili sbarramenti. Il valore legale della certificazione si giustifica al termine dell’obbligo, assai meno a 11 e 14 anni, ove deve prevalere un intento conoscitivo, formativo, di incentivo all’autostima e all’auto-orientamento dei ragazzi. Certificare deve significare soprattutto descrivere gli apprendimenti, delineare le progressioni, incentivare lo sviluppo e non tanto “misurare” e “sanzionare” i livelli. Una questione su cui occorrerà ritornare.
Toh… chi si rivede, il PECUP, anzi no… il profilo delle competenze
In apertura del testo è stato inserito un nuovo paragrafo che richiama le finalità generali della scuola di base (con doverosi riferimenti ai fondamenti costituzionali), tradotte in forma di profilo di competenze al termine del primo ciclo di istruzione. La presenza di un profilo di uscita suggella il comune impegno della scuola di base (che oggi si concretizza nella formula dell’istituto comprensivo) per una più efficace formazione di competenze culturali e di cittadinanza richieste ad un allievo di 14 anni. Undici anni di percorso formativo coerente e unitario (dalla materna alle medie), con la previsione di un ulteriore biennio di istruzione obbligatoria, dovrebbero garantire una effettiva “equivalenza” di risultati sancita dalla certificazione delle competenze acquisite. Un profilo non dovrebbe tradursi un una bandiera “ideologica” o “valoriale” circa il dover essere (scolastico ed esistenziale) dell’adolescente italiano, ma dar conto del quadro di competenze culturali e sociali che ci si attende al termine del percorso e che impegna la responsabilità degli insegnanti nell’organizzazione di un curricolo adeguato per raggiungere tali finalità.
Il profilo dovrebbe mantenere un carattere “dinamico”, aperto alla prospettiva del cambiamento e del miglioramento, senza cristallizzare singole prestazioni e abilità ma integrandole in competenze-chiave di cittadinanza. La scelta è stata quella di mutuarle dal quadro europeo delle competenze (2006) che sono state integralmente riportate nel corpus del testo, quasi a rimarcare un fondamento europeo alle finalità della scuola nazionale. Nella struttura compositiva del nuovo profilo prevale un carattere descrittivo, che non sfocia però nella genericità, tenuto conto che il profilo è un punto di riferimento per i diversi attori della relazione educativa (è infatti alla base del “patto formativo”), impegna le diverse componenti professionali che operano nell’ambito di un percorso verticale unitario (suggellato nel POF dell’istituto comprensivo), deve fornire elementi interpretativi alla certificazione delle competenze (che altrimenti risulterebbero solo scarne elencazioni di prestazioni osservabili).
Dietro le aree e gli assi… rispuntano le discipline
Le discipline del curricolo del primo ciclo, nel testo del 2007, erano aggregate in tre aree disciplinari (linguistico-espressiva, storico-antropologica, matematico-scientifico-tecnologico), diverse però dalle aggregazioni delle discipline in quattro assi, che si riscontra nelle Linee guida per l’obbligo di istruzione (2007), ove l’asse matematico fa storia a sè. L’articolazione in aree viene “vista” spesso come una chiave di volta del valore formativo delle singole discipline, in quanto consente di cogliere in esse non solo contenuti di conoscenza o linguaggi specifici, ma connessioni, elementi di trasferibilità, analogie, in grado di amplificare gli apprendimenti (trasferibilità). Ci si potrebbe, allora, chiedere perché nella attuale bozza delle Indicazioni sia stato deciso di togliere i quadri di presentazione delle aree disciplinari, entrando immediatamente nel merito dei singoli assetti disciplinari. Credo che non si sia voluto annullare il valore “formativo” dell’incontro tra le discipline, ma smontare il collante epistemico che tiene insieme discipline considerate affini. Ma chi scommetterebbe che geografia debba dialogare solo con la storia, piuttosto che con le scienze o la matematica, la tecnologia o l’arte? Sembra più corretto riconoscere la fecondità delle aree in termini di stimolo ad una conoscenza aperta, integrata, capace di “comprendere”. Il richiamo “didattico” alle aree è un suggerimento per l’insegnante, a lavorare sulle zone di confine delle discipline, sulle possibili connessioni, su situazioni di apprendimento “ampie” (compiti di realtà, problem solving, simulazioni), piuttosto che su frammenti isolati di contenuti. Ma proprio per questo motivo, ricordando anche che l’aggregazione delle discipline in aree o ambiti è demandata dal Regolamento dell’autonomia (DPR 275/1999) agli insegnanti, è sembrato opportuno ai redattori del testo introdurre il tema delle aree nel capitolo relativo all’organizzazione del curricolo e alla didattica. Le discipline rappresentano i “materiali” simbolico-culturali che vanno trattati dal punto di vista didattico dagli insegnanti, attraverso un dosaggio equilibrato tra “allenamento” all’acquisizione di alfabeti, strumenti, informazioni (lavorare sulle discipline) e la loro “ri-composizione” e “utilizzo” in situazioni significative (lavorare con le discipline), sapendo che non c’è un prima e un dopo, ma un intreccio tra analisi e sintesi, tra figura e sfondo, tra frammento e ologramma. Questa interpretazione la si coglie ancora meglio rileggendo la definizione, meglio puntualizzata, di campi di esperienza, che si ritrova nella riscrittura linguistica del testo della scuola dell’infanzia. Un campo di esperienza non è una disciplina in tono minore, perché ogni disciplina è esso stesso un campo di esperienza cognitiva.
La verticalità del curricolo
Già l’impianto delle Indicazioni/2007 valorizzava l’idea di un curricolo continuo dai 3 i 14 anni, sia per il format complessivo del testo –che comprendeva in un unico disegno i tre segmenti della scuola di base- sia in particolare per l’incipit descrittivo di ogni disciplina che sviluppava una riflessione unitaria sul significato del campo del sapere, rivolgendosi ai docenti della scuola primaria e secondaria, quasi a sottolinearne simbolicamente una comune visione culturale da declinare poi diversamente lungo l’arco del percorso curricolare. Il problema della continuità attiene proprio alla natura di questa declinazione didattica. Occorre superare una visione “naturalistica” della continuità, che sembra sottintendere una idea lineare e cumulativa dello sviluppo cognitivo. Tutti gli studi sull’apprendimento mettono in evidenza l’importanza delle discontinuità, delle sfide, dei dislivelli da superare: spetta alla regia degli adulti definire le caratteristiche di questi “compiti di sviluppo”, per motivare i ragazzi ad esplorare nuove aree di conoscenza e a non deprimere le loro potenzialità. Dunque, la continuità si intreccia con la discontinuità. Il curricolo verticale deve stimolare una sicura progressione nei risultati degli apprendimenti, nella differenziazione delle abilità cognitive (dagli automatismi a condotte sempre più autonome e riflessive), nell’ampliamento del patrimonio conoscitivo e nell’affinamento di linguaggi e codici. Questo ritmo implica una progressiva differenziazione degli ambienti di apprendimento, in relazione alla organizzazione delle classi (degli spazi, dei tempi, della tipologia di attività, dei “mediatori” didattici, degli stili comunicativi). Sembra utile una strutturazione per periodi verticali del curricolo, ma il ritmo “spezzato” che risulta dalla legge 53/2003 (1+2+2+2+1) non agevola questa fluidità, né ha portato ad un contributo significativo nel raccordo elementari medie (anzi, sembra averlo ostacolato). Non a caso in alcune situazioni sperimentali (Trento, Scuola-Città Pestalozzi di Firenze) il percorso ottennale è scandito sul ritmo 2+2+2+2 (per altro suggerito nei primi documenti della Commissione Bertagna, 2002), proprio per favorire una migliore “saldatura” tra la prima e la seconda parte del percorso di base. E’ indubbio che in una riconsiderazione complessiva del percorso di base è auspicabile spostare verso l’alto il baricentro del curricolo, per dare più respiro alla scuola media, chiedendole però di mutuare dalle elementari una migliore attenzione ai contesti di apprendimento e alle strategie di gestione della classe (è emblematico che il 76% delle scuole medie dichiari nel monitoraggio/2011 sulle Indicazioni di essere orientata verso la ”lezione frontale”, un dato che lambisce anche la scuola primaria).
Il curricolo di storia: lineare o ricorsivo?
E’ diffuso nella scuola il disagio verso un’impostazione lineare “lunga” dell’insegnamento della storia (e della geografia) a scavalco tra elementari e medie, con la caduta dell’impero romano posto sul confine tra elementari e medie. La “linearità” era nata – al tempo dei curricoli De Mauro (2001) – per favorire una migliore attenzione alle operazioni cognitive sottese agli apprendimenti dell’area storica (di cui c’è ampia traccia anche negli obiettivi e nei traguardi delle Indicazioni/2007) e per svincolarsi dalla logica evenemential. Ma questo schema ha finito per riconfermare la tradizionale sudditanza dell’insegnamento storico alla distribuzione dei contenuti lungo l’asse cronologico, per altro con ricadute assai discutibili (es.: la cultura greco-romana confinata negli anni della elementari). Insomma, l’unico arco cronologico non ha di per sé garantito il miglioramento della qualità dell’insegnamento della storia nelle nostre scuole elementari e medie. Siamo ben consapevoli del rischio che il ritorno alla ciclicità dell’approccio alla storia potrebbe essere richiesto dagli insegnanti (ma vedremo le risposte della consultazione), con motivazioni forse legate alle tradizionali routine didattiche. L’eventuale scelta di due “archi temporali” non deve quindi tradursi in un ulteriore tradimento della didattica della storia, con il ritorno ai “sette re di Roma” insegnati due volte. Sarà necessario precisare con molta chiarezza che storia “si fa” due volte nella scuola di base (un apparente paradosso, proprio nel momento della generalizzazione degli istituti comprensivi), perché “si fa” in due modi nettamente diversi, sia in riferimento all’età degli allievi ed alle operazioni cognitive possibili, sia alla diversa scelta/estensione/tessitura dei contenuti (da ridurre), sia alla tipologia di “lavoro storico” che si può progressivamente affrontare. Il paradosso della “storia” (che è sostanzialmente analogo per la geografia) ci segnala che curricolo verticale e “continuo” non significa necessariamente curricolo lineare, perché occorre mettere in gioco valori quali la ricorsività, la ciclicità, la progressione, la differenziazione (proprio grazie alla comune regia della comunità professionale del “comprensivo”). Spesso sono gli editori a “spingere” per le rigide demarcazioni dei periodi storici, su cui ritagliare la “pezzatura” dei manuali. Ma anche questo sembra un approccio tradizionale (a prescindere da uno o due archi temporali). Ormai con la possibilità di dilatare gli e-book (per approfondimenti on demand) è immaginabile che il curricolo di storia possa essere costruito con più flessibilità e su misura delle scelte di ogni scuola.
L’alfabetizzazione: pane e grammatica nella società della conoscenza
Si percepisce dalla lettura di alcune pagine del nuovo testo l’esigenza di puntualizzare i compiti formativi essenziali della scuola di base. Ricordiamoci che la scuola elementare è nata come scuola della prima alfabetizzazione, del “leggere, scrivere, far di conto”, all’insegna del “pane e grammatica”, una missione che rimane di stretta attualità, ma che va riletta alla luce delle condizioni della società contemporanea, multiculturale, multimediale, attratta dall’”estasi della comunicazione”. Le classi si caratterizzano sempre più come ambienti plurilingue e questo implica scenari inediti nell’approccio all’alfabetizzazione e alla padronanza della lingua (ed è un punto che forse meriterebbe maggiore attenzione nel documento). E’ dunque opportuno insistere su una padronanza sicura delle abilità di letto-scrittura, come chiavi accesso all’informazione consapevole, alla cittadinanza, all’apprendimento permanente. L’enfasi sulle abilità fondamentali (tra le quali non si possono dimenticare quelle orali, di ascolto e di riflessione sulla lingua), tuttavia non può essere scambiata per un ritorno ad un insegnamento grammaticale, descrittivo e meramente esecutivo. Va salvaguardato il concetto di competenza linguistica, e non solo di abilità strumentali, riscoprendo il legame tra padronanza della lingua e abilità cognitive più trasversali (una buona competenza linguistica rende la mente meno pigra e il mondo meno opaco), mettendo a fuoco il mutuo rapporto tra le diverse discipline e la lingua.
Questioni aperte: la parola alla scuola
Sono numerosi i nodi che restano da sciogliere e non è detto che lo saranno in questa occasione. Molte questioni si intrecciano con l’evoluzione della nostra società e propongono sfide inedite, non sempre così chiare e univoche. Ne riassumiamo alcune, ma ci attendiamo che molte altre emergano dalla consultazione delle scuole.
- Il richiamo alla disciplina “Cittadinanza e Costituzione” (legge 169/2008), di cui viene rafforzata la presenza nel testo, senza però identificarla come disciplina autonoma (la querelle viene da lontano…). Sono molte le zone del testo in cui si fa riferimento ai temi della “Cittadinanza” come asse valoriale trasversale, e della “Costituzione”, come contenuto di conoscenza da demandare alle discipline a sfondo storico.
- La presenza pervasiva delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC), nonché del “mondo digitale” e dei new media, questione che non può essere evocata solo dalla presenza di una disciplina specifica come “tecnologia” (che tra l’altro non va assolutamente identificata con l’informatica) e che trova richiami in numerosi campi disciplinari. Solo con questa apertura i “nativi digitali non saranno scambiati per analfabeti secondo il vecchio contesto ermeneutico”.
- Il riequilibrio del curricolo mettendo più in risalto alcune discipline considerate portanti, per le quali rendere più visibile l’articolazione delle competenze attese, anche mediante obiettivi specifici intermedi, e delineando un’area di discipline complementari per le quali privilegiare un approccio aperto, integrato, proiettato anche verso opportunità extrascolastiche (concetto, questo, da maneggiare con cautela). Per alcune discipline è stata accantonata la scansione intermedia di obiettivi per la terza elementare, per consentire una progettazione più flessibile e graduale.
- La complessità del concetto di “competenza”, che pure stava già alla base del testo del 2007, e che oscilla tra una dimensione prettamente qualitativa (competenza come integrazione di risorse cognitive, sociali, emozionali per affrontare nuovi compiti in situazione), difficilmente “misurabile” o certificabile (comunque non certo con “prove” una tantum) ed una maggiormente riferita alle definizioni europee di competenze-chiave, culturali e di cittadinanza, come sintesi trasversale degli apprendimenti disciplinari (il testo delle Indicazioni sembra optare per questa seconda interpretazione).
- La ricerca di un punto di equilibrio tra la italianità delle Indicazioni, appunto, “nazionali” (con la richiesta di pervenire ad una sicura padronanza della lingua italiana) e lo scenario multiculturale e plurilingue in cui la scuola italiana ed europea oggi opera (cfr. MIUR, La via italiana all’educazione interculturale, 2007).
- La specificità della presenza della scuola dell’infanzia, che si fa apprezzare per la dimensione ecologica del curricolo, in grado di accompagnare con plasticità e delicatezza lo sviluppo dei bambini, rispettando la diversità degli stili di apprendimento, il valore della creatività (come dimensione tipica dell’intelligenza), la qualità dei contesti di esperienza. Per i docenti della scuola dell’infanzia è stato coniato uno specifico paragrafo, per valorizzarne la funzione di cura, regia, progettazione.
Ma è ancora tempo di programmi e di indicazioni?
Il formato dei programmi nazionali (ma anche delle Indicazioni) è stato spesso accusato di essere eccessivamente prescrittivo in ordine all’elencazione di obiettivi specifici di apprendimento (per altro richiesti dalla formulazione dell’art. 8 del Regolamento dell’autonomia -DPr 275/1999), sconfinando nelle sfere di libertà progettuale e didattica riconosciuta i docenti. D’altra parte la semplice individuazione di un profilo di uscita (o di finalità generali del processo educativo) o di generalissimi traguardi disciplinari sembra troppo evanescente e non in grado di soddisfare l’esigenza di delineare un quadro nazionale di obiettivi prescrittivi per tutte le scuole (che potrebbero rappresentare anche i livelli essenziali di prestazioni da assicurare in tutte le realtà del paese). Inoltre, il dibattito e la ricerca sulle discipline (e il loro insegnamento) e sull’apprendimento (e le condizioni che possono favorirlo) sono in continua evoluzione e richiederebbero frequenti manutenzioni dei programmi fissati dal centro. Così pure gli esiti delle rilevazioni strutturate degli apprendimenti, i feed-back delle scuole e degli insegnanti sui risultati raggiunti, le richieste sociali verso la scuola: sono tutti fattori che meriterebbero una procedura in progress per la ridefinizione continua dei curricoli (anche di loro parti limitate). Forse, per il futuro, sarebbe utile rendere prescrittivi alcuni aspetti essenziali dei “programmi nazionali” (come i profili attesi al termine dei diversi livelli scolastici, i traguardi fondamentali delle discipline “portanti”), mentre gli aspetti più operativi (i traguardi di dettaglio, gli obiettivi intermedi, le esemplificazioni didattiche) dovrebbero essere demandate a strumenti più informali e più agili (linee guida, raccomandazioni, tracciati curricolari, ecc.) messi a disposizione delle scuole dalle comunità scientifiche e professionali e offerti alla libera adozione dei docenti. E’ dunque raccomandabile una seria riflessione sul formato delle future Indicazioni, per coniugare l’esigenza di quadri stabili e normativi di riferimento con un più ampio e libero ricorso agli apporti della ricerca scientifica, didattica e metodologica. A tal fine sarebbe assai opportuna la costituzione di una struttura nazionale per la “manutenzione” dei curricoli nazionali (una sorta di “agenzia” permanente agile e snella, come avviene in altri paesi), per garantire una azione di survey sull’impatto delle Indicazioni sulla vita delle scuole e proporre gli opportuni adattamenti in “progress”, a prescindere dalle stagioni politiche del momento.
[1] Le ricerche nazionali e internazionali sugli esiti degli apprendimenti dei 15enni (Pisa) e 16enni (Invalsi) convergono nell’attestare la forte stratificazione dei risultati scolastici sulla base della diversa tipologia dei percorsi formativi, oggi previsti all’interno di una idea allargata di obbligo di istruzione fino a 16 anni (istruzione scolastica, formazione professionale, apprendistato ecc.). In particolare si registra una estrema differenziazione nei risultati legata al tipo di istituto prescelto (istruzione liceale, tecnica, professionale). Ulteriori indicatori (es. regolarità dei percorsi, tassi di successo, dispersione) esibiscono lo stesso trend negativo, tanto da inficiare il concetto di “equivalenza formativa”. Questo dato non appare scalfito al momento dalle scelte adottate con la recente riforma dell’istruzione secondaria superiore (regolamenti del 2010), ma interroga intanto la “formazione di base” che precede e precostituisce spesso la scelta a 14 anni.
(3.6.2012)