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Il concetto di identità
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di Ornella Mandelli
L’identità personale è un tema cruciale sia per quello che riguarda gli allievi, i soggetti in formazione, sia per quello che riguarda gli insegnanti.
Un tema questo che nella scuola in generale a partire dalla scuola primaria non sempre è stato oggetto di programmazione e spesso non è stato esplicitato come obbiettivo del processo formativo. Lo è stato di più negli ordini di scuola inferiori, per esempio nella scuola dell’infanzia, dove si sa che si lavora più sul bambino che sulle sue conoscenze, sulle cose che l’allievo deve imparare.
Anche per i più piccoli allievi le conoscenze sono molto importanti, poi sembra quasi che i programmi e i contenuti prendano il sopravvento sull’esigenza di mettere nei nostri obbiettivi formativi la formazione dell’identità.
Oggi l’attenzione sull’identità è crescente ma in ragione soprattutto della multietnicità dei partecipanti al consesso formativo.
Da quando ci sono fenomeni di emigrazione, da quando soggetti differenti, per provenienze culturali, si trovano nella scuola, si pone il problema dell’identità, come se fosse solo un problema d’identità antropologica, di appartenenza.
Non è così, perché se è vero che, in un progetto correttamente multiculturale, noi insegnanti dobbiamo avere il massimo rispetto e la massima attenzione per le culture di provenienza dei nostri allievi, è anche vero che molte volte nella scuola si deve proprio traghettare il cambiamento dal modello identitario dei genitori a quello dei figli.
Quindi bisogna sorvegliare sul fatto che l’attenzione ai problemi della multiculturalità non consista nel rispedire le istanze di cambiamento degli allievi al mittente delle loro famiglie d’origine, che come sappiamo non sempre sono portatori di modelli compatibili con una pluralità di punti di vista.
Un’identità europea, un po’ confusa, ma tutto sommato presente, è proprio quella della pluralità, della molteplicità e della capacità di convivere tra persone diverse con riferimenti identitari differenti.
Cos’è l’identità personale? Come possiamo definirla?
Giovanni Jervis, psichiatra italiano, ha dato la definizione dell’identità personale: identità è riconoscersi ed essere riconosciuti.
Ciascuno di noi ha un’identità decentemente strutturata quando si riconosce; ad esempio, guardandosi allo specchio, sa rispondere banalmente alla domanda “Chi sono?”, ma anche quando le persone che fanno parte del suo contesto esistenziale lo/la riconoscono.
L’importante è che l’autoriconoscimento, e l’eteroriconoscimento possano coincidere totalmente, o almeno in parte.
Il problema del riconoscimento dell’altro è fondamentale per tutti noi.
Per i bambini la preoccupazione è immediata, più sono piccoli, più l’identità è ancora poco strutturata e ancora in formazione e perciò hanno continuamente bisogno di conferme.
Nel film intitolato “La Famiglia”, c’è un episodio in cui il nipotino di questa famiglia ha uno zio gerarca fascista, nonché un po’ tontolone, che gli vuole molto bene, questo zio, un po’ approssimativo nei suoi metodi pedagogici, per gioco, un giorno fa finta di non vedere il bambino.
Entra in casa, il bambino gli corre incontro e lo zio comincia a chiedere dove si trova il nipotino. Il bambino risponde che si trova davanti a lui e lo zio continua a far finta di non vederlo e a chiamarlo. Le donne in casa stanno al gioco. Dopo 3 minuti il bambino ha una crisi isterica e un attacco para-epilettico, perché teme di non esserci davvero.
Riconoscersi ed essere riconosciuti è particolarmente importante nel mondo della scuola. Ma c’è anche il problema opposto.
C’è un’identità che ha continuamente ed esclusivamente bisogno della conferma dell’altro, per cui il soggetto esagera, va troppo dalla parte del riconoscimento dell’altro e, pur di essere riconosciuto, obbedisce a tutte le istanze del gruppo di appartenenza. Quindi se il gruppo gli chiede di essere in un certo modo, lui rinuncia alla propria esigenza individuale, alle proprie tensioni e ai propri desideri per assecondare i propri interlocutori e per essere riconosciuto.
La scuola è spesso complice di questa operazione, in quanto non ha un’attenzione particolare e pratica del racconto di se stessi, di ricerca dell’identità e dell’interiorità; s’impara e si è più o meno bravi se lo si è nella situazione cognitiva e si dimostra di avere imparato.
I soggetti più fragili spesso diventano i primi della classe per essere riconosciuti come bravi, perché sono deboli nei confronti di se stessi, perché fanno fatica a riconoscersi.
Pensate per esempio a quegli adolescenti un po’ grassi, un po’ brufolosi, che cominciano a studiare come pazzi, perché in questo modo sono riconosciuti e gratificati.
I bambini che sanno anche dire basta all’offerta e alla richiesta dei formatori devono essere rispettati, perché devono costruire la propria identità, le proprie relazioni, devono per esempio trasgredire, perché senza trasgressione, senza tradimento, come dice Carotenuto, non c’è conquista dell’autonomia. Questa avviene già nel bambino piccolissimo attraverso la fase dei “no”, quella che la psicologia chiama fase dell’opposizione. In sostanza questo stato è caratterizzato dalla scoperta che si può fare qualcosa di diverso da quello che è stato chiesto: ecco il riconoscersi.
La scuola deve proporre un’offerta cognitiva, di sapere, di conoscenze e di pratiche di rielaborazione che consentano al soggetto di rappresentarsi in maniera autentica. Dobbiamo fare in modo che la nostra offerta formativa non sia alienante, che non porti il soggetto fuori da sé, come succede al bambino brufoloso, ma che consenta al soggetto di scoprirsi e di costruirsi meglio.
Categorie riguardanti l’identità
Per conoscere le cose noi tendiamo a smontarle. Siamo analitici, siamo tassonomici, anche quando non dovremmo esserlo.
L’identità è una cosa unitaria, misteriosa e molto complessa, però proviamo a smontarla lo stesso, in
quattro parti, avendo sempre l’accortezza di considerarle assieme.
1.- Uno dei primi indicatori, una delle prime funzioni dell’identità è senz’altro quella, che con un termine mutuato alla psicomotricità, possiamo chiamare l’identità cenestetica.
Essa riguarda il corpo e la coscienza di esserci, di essere materialmente nel mondo.
Questa identità, questa cenestesi identitaria si sviluppa fin dai primi giorni di vita, secondo alcunifisiologi anche nella fase uterina, quando per esempio i bambini, i feti, si mettono il pollice in bocca. Cominciano ad avere una percezione non tanto del pollice ma della bocca, cioè scoprono di avere delle sensibilità e quindi di entrare in relazione col mondo.
Il bambino messo da piccolissimo nella culla si accorge di avere un peso.
A partire da questa sensazione di essere corpo e di essere una cosa in un ambiente col quale si entra percettivamente in contatto, comincia la coscienza cenestetica.
La scuola non ha un rapporto con i corpi utile a sviluppare la coscienza cenestetica, ma al contrario, in classe, il corpo è spesso censurato, negato o comunque messo molto da parte.
Nei momenti di educazione motoria il rischio è quello di raggiungere una prestazione e quindi ancora una volta l’apparire, l’essere riconosciuto e non lo scoprire un buon rapporto di rappresentazione con il proprio corpo.
Certamente le macrostrutture ludiche per l’infanzia, tutte quelle cose che ci sono nella scuola dell’infanzia che servono proprio a scoprire cosa è capace di fare il corpo, si può dire che funzionano molto meglio di una partita di calcio, perché la partita è solo una prestazione, addirittura la falsificazione di una prestazione del corpo, perché è solo un piede che funziona o una mano.
2. Altro concetto fondamentale dell’identità è quella, che è definita l’identità convenzionale, cioè tutta quella parte della nostra identità che non dipende dalla natura, ma dalla cultura, cioè: il nome, l’appartenenza ad una famiglia, il cognome, l’appartenenza ad un gruppo culturale, religioso, ecc… .
Ci sono delle cose che noi crediamo naturali ed invece sono convenzionali.
Per esempio l’identità di genere, perché è chiaro che ha una base di naturalità, di fisiologicità.
Quando un bambino riceve informazioni sul suo genere (maschio o femmina) non le ottiene in ragione della scoperta del fondamento fisiologico del suo essere bambino. Cioè riceve sulla sua identità di genere informazioni, suggerimenti, modelli d’identificazione che sono convenzionali. L’informazione sul genere è inevitabile, però siamo consci del fatto che la nostra identità di genere è culturale, non naturale. Rispetto a questo la scuola può fare molto, evitando l’ambivalenza dei processi d’identificazione. Giustamente insegnanti e operatori dell’educazione sono molto attenti, addirittura quasi spaventati, all’ipotesi di diventare modelli identificatori; d’altra parte questo è inevitabile e del tutto positivo.
Lo stare in un laboratorio, lo scendere dalla cattedra, il riuscire ad entrare in una relazione che ricorda più l’animazione che l’insegnamento, è una cosa che aiuta curiosamente a sviluppare l’identità cenestetica e l’identità di genere, perché i corpi entrano in scena e scoprono come sono e come possono essere riconoscibili in base a qualcosa che non sia lo stereotipo ma la costruzione dell’assecondamento del modello culturale.
3- Un’altra funzione dell’identità è l’identità estetica, cioè quella che riguarda l’affettività, l’emotività, quindi l’educazione sentimentale, i gusti ed il carattere.
In questo modo vediamo come il carattere può essere scoperto, perfezionato e costruito, perché in parte esso si costruisce nell’ambiente scolastico. L’individuo del carattere non è solo vittima, il carattere è qualcosa che in parte ereditiamo: il problema è come vedere il nostro modo naturale e originario di essere. Può essere educato e auto-educato, ma deve diventare consapevole. Il modo di rivelarlo e di scoprirlo può diventare oggetto di un progetto pedagogico che mette l’identità ad un posto rilevante.
4.- Ultima funzione dell’identità è il MIO come estensione dell’IO. Cioè una funzione fondamentale per l’identità umana, di cui ci parla quasi ogni mitologia prima ancora della psicologia. Certamente è utilissimo nella scuola poter avere, nel luogo in cui passo molto tempo, un luogo MIO. Cos’è un MIO nella scuola? Un armadietto, un posto in cui non tengo solo ciò che serve, ma ciò che è un MIO segreto, che faccio vedere solo a chi pare a me, che condivido solo con chi voglio iniziare un rapporto particolarmente intenso nei miei confronti.
Tutte queste cose la scuola dell’infanzia le pratica; gli ordini successivi di scuola non sempre.
Questo vale anche per gli insegnanti, che in qualunque posto hanno varie cose loro; mentre per gli allievi a scuola questo non avviene, ed è molto pericoloso.
Noi siamo animali simbolici, “MIO”, non sono solo persone, oggetti, situazioni, luoghi; “MIO” è anche il sapere; “MIA” è la mia lingua; “MIO” è il mio libro; “MIO” è tutto ciò che so e che grazie al quale mi faccio riconoscere e mi riconosco.
L’offerta formativa della scuola è identitaria se diventa identità, cioè se i soggetti che imparano le cose se ne appropriano per costruire la loro identità.
Ciascuno di noi ha un “MIO” simbolico.
Ai bambini di oggi questi “MIO” simbolici provengono soprattutto dall’esterno della scuola, perché il “MIO” simbolico è il “MIO” più forte: è l’anima, è quello che diventa ispiratore di principi, di modelli, di criteri estetici, di scelte etiche.
Quando un’opera letteraria scivola nella dimensione etica ed estetica dell’identità, vuol dire che ha funzionato come “MIO” identitario. Gli studiosi dicono che ciò che tecnicamente dimostra il passaggio dalla conoscenza all’identità è ciò che chiamiamo “metaconoscenza”.
Ad esempio noi facciamo studiare le tabelline e di conseguenza ci sono due modi per saperle: farle studiare a memoria oppure anche far capire come funzionano. Nel momento in cui ho capito il congegno della tabellina e mi costruisco da solo quella dell’undici, la conoscenza è diventata metaconoscenza e da quel momento c’è un mio modo di pensare che fa si che quello strumento diventi identitario. Questo vale anche per quanto riguarda il pensiero narrativo e simbolico.
I bambini che in famiglia ascoltano favole e racconti elaborano un pensiero narrativo, cioè un modo di pensare in sequenza, collegando fra loro per successione temporale e per rapporto di causa - effetto più parti di un discorso.
Due bambini differenti che guardano lo stesso programma televisivo, apparentemente con la stessa espressione, possono avere aspettative completamente differenti.
Il primo cerca la storia, l’altro osserva una scena alla volta facendosi attrarre o ipnotizzare dal flusso, ma non capisce la storia. I bambini che hanno un pensiero narrativo costruiscono con i loro giocattoli una piccola sequenza; i bambini che non hanno un pensiero narrativo ripetono istericamente una scena senza un prima e senza un dopo, con esiti anche pericolosi per una vita adulta, perché l’ossessione del presente, l’ossessione del tempo senza dilatazioni nel prima e nel dopo - che oggi caratterizzano molti giovani - è legata non solo alla mancanza di prospettive etiche ma è la mancanza della struttura di un pensiero narrativo che consente di vivere il momento che stiamo vivendo come una scena di una storia che ha un suo senso, un prima e un dopo.
Non si può parlare di senso ad una persona che non ha un pensiero narrativo, perché il senso fa parte di un flusso. Nulla ha senso di per sé. Ecco perché parlare di discipline di conoscenze è un po’ pericoloso ed invece bisognerebbe parlare d’identità e di metacognizione.
Il senso di ciascuna cosa che offriamo ai soggetti in formazione esiste solo se c’è una ricaduta nella grande narrazione della costruzione identitaria, la quale, a sua volta, diventa cosciente solo se ha strumenti culturali per potersi dire e potersi raccontare. Dobbiamo trasmettere conoscenze facendo attenzione che queste siano trasmesse al sé che è la totalità della nostra identità.
Per distinguere io e sé facciamo riferimento a due processi:
il processo di identificazione della propria identità a partire da quella di qualcun altro (imitata o negata); il processo d’individuazione come costruzione della propria differenza in rapporto a tutti gli altri.